sabato 2 marzo 2013

Una parte della mia vita.......che rimane per sempre nella memoria e nel cuore! (Dal libro)


Filippo morì una mattina di ottobre all’età di ottantadue anni. Già da un paio di anni non stava molto bene, e non tollerava più di non riuscire a raccogliere da solo i fichi del suo albero. I limiti che gli imponevano la sua età e la sua condizione, lo costringevano a un modo di esistere per lui insopportabile, a quel punto il suo corpo aveva deciso di lasciare perdere, non valeva più la pena continuare.
Noi eravamo tutti lì, oltre che tristi, anche un po’ attoniti. Può sembrare bizzarro, ma non eravamo ancora pronti a non avere più bisogno della sua presenza, anche se sapevamo da tempo, che non poteva più aiutarci concretamente…………………
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Filippo era proprietario di alcuni agrumeti. Tutte le mansioni che i terreni richiedevano le svolgeva il suo fattore, che viveva in campagna badando anche ai suoi cani e portandoli a caccia per tenerli allenati.
Questo personaggio della mitologia della mia infanzia si chiamava Pollara. Non so granché della sua vita, ma quando noi bambini andavamo in campagna, lui era sempre lì con i suoi capelli bianchi, la faccia cotta dal sole, con la sua espressione di assoluta bontà e fedeltà. Ci offriva pane di casa e olive schiacciate con le sue mani forti deformate dall’artrite.
Quando Pollara era ormai molto anziano e malato, non potendo vivere più in campagna, venne a stare per qualche tempo nella nostra casa al mare, dove mio padre fece sistemare il garage per ospitarlo. Viveva li con il suo cane, una spinona mezza meticcia che si chiamava Rosa, con cui si capivano guardandosi negli occhi per qualche istante.
Appena arrivavamo, la domenica, io correvo subito da Pollara e gli chiedevo se potevo portare Rosa in giro con me. Pollara faceva un cenno con la testa a Rosa e lei, che sonnecchiava a terra accanto a lui, si alzava lentamente e mi seguiva seria. Rosa era quasi più grande di me, mi ricordo che io l’abbracciavo circondandole il collo con un solo braccio e non arrivavo neanche a chiudere il cerchio e toccarmi il fianco. Non so chi tra noi due guidasse la passeggiata, ma io mi sentivo grande e forte, mentre lei, con attenzione e pazienza cercava di capire e fare quello che le chiedevo.
Durante una di queste uscite, Rosa incontrò un gatto. Si scrutarono un istante, sia lei che il gatto avevano il pelo dritto sulla schiena. Poi, all’improvviso, partirono all’attacco e si azzuffarono. Il gatto ebbe la meglio e fece dei profondi graffi sul naso di Rosa. Piangendo, riportai Rosa sanguinante a Pollara e lui, con il suo tranquillizzante sorriso, la accarezzò e mi disse: “Osmio, veni c’à! Chi c’è da chianciri pì stà fissaria!” 1
Poi, tamponando il naso di Rosa con un fazzoletto le disse: 
“Rosa comu ti l’haiu a diri di lassari stari i iatti. Si nà smetti, quacchi ghionno ti piagghiano n’occhio, e poi viri comu cià finisci!” 2
Da quel giorno non portai più in giro Rosa: non potevo tollerare l’idea che, mentre era con me, un gatto l’attaccasse e le accecasse un occhio, senza che io riuscissi a difenderla, come mio Padre aveva fatto con Pollara, ormai anziano e malato.
Ma quello che più mi ricordava mio Padre, era una frase che aveva ripetuto centinaia di volte in famiglia, quando qualcosa non gli stava bene:  “Guardate che, se mi stufo, l’anno prossimo vendo tutto e me ne vado alle Ovaie (che sarebbero le Hawaii). E poi buonanotte ai suonatori!”.
Quando diceva questa frase non era veramente arrabbiato. Più che una minaccia era una battuta, che aveva solo il senso che nella sua mente si riservava l’illusione di poter andare, un giorno, in un luogo ideale.

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1  “Osmio, vieni qui! Cosa c’è da piangere per questa stupidaggine!”

2   “ Rosa come te lo devo dire di lasciare stare i gatti. Se non la smetti, qualche
       giorno ti graffiano in un occhio, e poi vedrai come la finisci.”



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