lunedì 1 dicembre 2014

Riflessioni di mezza età..

Era passato più di un anno da quando era finita la storia con Claudia, ero diventato Professore Associato, e volevo fermarmi lì: andare oltre mi avrebbe imposto compiti e impegni non scientifici che non mi interessavano.
Mario aveva avuto il terzo figlio, e aveva molti capelli bianchi e molti capelli in meno, ma era sempre iperattivo e ottimista. Comunque, per il momento aveva avuto ragione lui: era l’unico ad aver accresciuto l’albero genealogico della famiglia. Ognuno ha i propri modi di affrontare il problema della fine, lui lo faceva ricostruendo la genealogia familiare sino alla terza o quarta generazione precedente. E visto che non avevamo illustri predecessori, penso lo facesse soltanto per consolidare l’idea di far parte di un processo che poteva non avere una fine, insomma, era un tentativo di superare il suo essere mortale.
La vita scorreva abbastanza tranquilla, tuttavia il tempo passava troppo velocemente e, guardandomi indietro, anche se avevo fatto parecchie cose, mi sembrava che tutta la mia esistenza fosse durata pochi attimi. Per modificare questa fastidiosa impressione, spostavo la memoria su periodi ben definiti di cui cercavo di ricordarmi il maggior numero di particolari, nel tentativo di riuscire a dare al tempo un senso di durata più lungo......
Ero anche entrato a far parte di quel 1-2 % della popolazione IRPEF di più alto reddito, ma mi domandavo come mai non potessi comprarmi una casa, né una barca, né altri generi di conforto che molti ricchi possedevano. Doveva esserci qualcosa che non quadrava nella nostra ineguagliabile e furbesca nazione.
Dopo vari tentativi, avevo anche trovato una donna di servizio, o più correttamente una collaboratrice domestica, adatta alla mia condizione di single. Era una donna di 55 anni mai sposata, molto seria e precisa, che con il piglio di un ufficiale delle SS aveva preso il controllo della mia casa e la mandava avanti meglio di me, cercando di anticipare le mie necessità. Mi ricordava po’Adelina di Montalbano, anche se cucinava meno bene.

domenica 6 luglio 2014

La Nonna Santina.......il perno della famiglia!

Un mese dopo, la Nonna Santina ci lasciò. Non credo che le nozze di Patti abbiano avuto un ruolo nella sua dipartita, ma non posso escluderlo, viste le difficoltà con cui alcuni membri della mia famiglia affrontavano il problema della perdita. Comunque, aveva seri problemi cardiaci, ebbe una broncopolmonite e, almeno, non soffrì a lungo.
La Nonna Santina merita, a questo punto, una breve digressione perché è stata uno dei pilastri portanti della nostra famiglia. Era nata nei primi del 900 e aveva un fratello più grande, lo zio Pierino, ma era lei la figlia con i pantaloni. Era una donna attiva e caparbia, con qualcosa di romanticamente confusionario e, quando si metteva in testa una cosa, era difficile farle cambiare idea. Fu così quando si innamorò e decise di sposarsi con il nonno Pippo, contro la volontà dei genitori e dei parenti in genere. I familiari della nonna non volevano che lo sposasse, perché su Pippo in paese giravano voci infamanti. Pippo era andato nel Nord Italia da giovane, e lì gestiva il commercio di agrumi per conto della sua famiglia. Si diceva che facesse una vita allegra e dispendiosa, e che avesse contratto una malattia da contagio sessuale. Queste voci, in un paese della Sicilia, erano più che sufficienti per rovinarti la reputazione. Ma la nonna Santina era sicura del suo amore e, contro il volere di tutti, partì per il Nord rimanendo con lui qualche tempo. Fece cioè quella che in Sicilia viene chiamata “una fuitina”. In questo modo mise con le spalle al muro i miei bisnonni che, per non rimanere con una figlia svergognata, accettarono Pippo e acconsentirono al matrimonio.
La loro fu una vita piena e la nonna diceva che non si pentì mai di questa scelta, anche se Pippo era spesso al Nord per lavoro. Erano più che benestanti, avevano un intero palazzotto di due piani che al primo aveva più di venti stanze (alcune le scoprii soltanto quando ero già adolescente). Dopo 4 femmine finalmente arrivò il tanto atteso maschio, e lì si fermarono. Teresa era la primogenita. Posso immaginare quali problematiche potessero esserci in famiglia per quell’esubero di donne; la nonna cercava di tenerle a bada, ma era troppo buona e un po’ confusionaria e le mie zie stavano con due piedi in una scarpa solo quando c’era il nonno Pippo di cui avevano timore, e col quale avevano limitati rapporti affettivi. Mio zio Agatino, essendo il più piccolo, riuscì a salvarsi in quel gineceo perché era coccolato da tutte le sorelle. Insomma era una famiglia matriarcale dove, dato l’eccesso di presenze femminili e la limitata possibilità di dare affetto a tutti in modo equilibrato, la situazione lì dentro assomigliava a quella di un pollaio dove imperavano le galline, beccandosi vicendevolmente ma mantenendo integra l’unità familiare.
I temi della famiglia unita, della beccata mascherata da gesto affettuoso, del tentativo di controllare il pollaio con ogni tipo di manovra, vennero affinati lì ben prima che io nascessi.
Il nonno lo conobbi appena e già in una fase avanzata della malattia cerebrale che lo aveva colpito ancora piuttosto giovane: non riconosceva nessuno e non riusciva più neanche a parlare. Quando mi vedeva lanciava un lungo urlo, che a me faceva una paura tremenda, ma che mia nonna Santina interpretava come un segnale di riconoscimento e di affetto.
Dopo la sua morte lo zio Agatino, anche se molto giovane, prese il comando della famiglia, come voleva la tradizione. E questa fu la sua seconda ancora di salvezza: riuscì a passare indenne dal ruolo di fratello minore coccolato a quello di capofamiglia, senza che ci fosse il tempo di preparare lotte intestine. Queste cominciarono pesantemente solo molti anni dopo, quando tutti erano grandi, sistemati e scontenti per la iniqua divisione del patrimonio.
Tutti volevamo bene alla nonna Santina, in particolare noi nipoti, perché era una vera Nonna, e il suo funerale, dove ci rincontrammo in molti, fu più gioioso e affettivamente vero di molti noiosi matrimoni. Eravamo tutti commossi e ci sentivamo vicini, ma quella che sorprendentemente piangeva come un vitello era Camilla, che alla nonna Santina era molto legata e che, in silenzio, l’aveva accudita più di altri quando stava male.


domenica 18 maggio 2014

DIVENTARE ADULTI (..anche se non vorresti!)

Filippo morì una mattina di ottobre all’età di ottantadue anni. Già da un paio di anni non stava molto bene, e non tollerava più di non riuscire a raccogliere da solo i fichi del suo albero. I limiti che gli imponevano la sua età e la sua condizione, lo costringevano a un modo di esistere per lui insopportabile, a quel punto il suo corpo aveva deciso di lasciare perdere, non valeva più la pena continuare.
Noi eravamo tutti lì, oltre che tristi, anche un po’ attoniti. Può sembrare bizzarro, ma non eravamo ancora pronti a non avere più bisogno della sua presenza, anche se sapevamo da tempo, che non poteva più aiutarci concretamente.
Mio padre era morto. E io avevo la angosciosa sensazione di avere perso una protezione vitale, mi mancava un paracadute, che con lui in vita mi sembrava di avere.
Anche se nessuno di noi figli fondava più la vita sull’aiuto dei genitori, essendo sempre stati ritenuti da Teresa molto bisognosi, in una parte accantonata di noi stessi rimaneva questo fragile frammento di identità, che adesso inevitabilmente riemergeva e andava in pezzi. Certo eravamo tutti adulti e indipendenti, ma emotivamente per me le cose stavano così, e capivo che a questo punto era necessario crescere definitivamente. Nonostante credessi di essere abbastanza preparato alla sua morte, con mia sorpresa tutto in quei giorni mi sembrava confuso e volatile. Era vero quello che avevo sentito dire, spesso a sproposito, che alcune cose puoi conoscerle chiaramente solo quando accadono.
Tante persone che conoscevano personalmente mio padre, e anche molti nostri amici che lo avevano conosciuto tramite noi e che io non vedevo da tempo, vennero a trovarci prima del funerale. Sapevo che, per non poche cose, mio padre era stato importante nella mia vita, ma ero sorpreso nel vedere che, nonostante il suo carattere non facile, il suo modo passionale di vivere lo aveva legato alle persone, e aveva fatto sì che tanti gli volessero bene. Filippo pensava di non aver bisogno di una corazza, forse era stato troppo protetto, e si buttava nella vita con entusiasmo, senza vedere gli ostacoli. Ma continuando a sbatterci contro, cominciò a sentirsi sempre più ferito, e a ritirarsi da quel mondo ingrato che lo ostacolava.
Teresa era comprensibilmente la più confusa. In quei giorni era giunta alla conclusione che il suo compito sacrificale verso mio padre fosse finito, quindi aveva delegato me e Mario a occuparci di tutto. Cominciava a prepararsi a invertire la situazione: adesso eravamo noi a doverci occupare di lei, ma sempre secondo le sue precise direttive e aspettative. Anch’io ormai ero sistemato, avevo una compagna e stavo per avere un figlio, quindi, secondo i suoi parametri, avevo una famiglia. Il suo sacrificio era finito ora toccava a noi.
Arianna era al quarto mese di gravidanza e aveva qualche piccolo problema, per cui avevamo deciso che era più sicuro che rimanesse a riposo. Ma era anche giusto così. Non mi riferisco alle regole del contratto di legame, ma al fatto che in quei giorni succedeva per me qualcosa di molto personale e intimo, che era preferibile vivessi da solo.
Mario era ormai diventato ciò che mio padre e Teresa speravano, e da qualche anno, era entrato in politica. A suo dire, gestiva comuni, province e regioni.
Patti continuava ad avere bisogno di aiuto ma, a forza di aiutarla, ormai aveva un patrimonio immobiliare non irrilevante, e una attività collaterale che gestiva con discreta abilità.
Camilla aveva la sua vita interessante e movimentata, girava per il mondo e da tempo, pur mantenendo la sua originalità, si era stabilizzata.
Il funerale si svolse il giorno dopo.
Patti, che manteneva il suo hobby di regista alternativa e andava sempre in giro con una telecamera in mano, riprese tutta la cerimonia. Il prete, un personaggio vecchio stampo, la guardava perplesso ma, essendo la situazione piuttosto anomala e non sapendo che quella donna che immortalava tutto era la figlia, non disse nulla. Se lo avesse saputo l’avrebbe presa per un orecchio, come gli scolari discoli, e l’avrebbe piazzata d’imperio al primo banco, dove c’eravamo noi, il resto della famiglia.
Finito il funerale, con Mario accompagnammo Filippo al cimitero del paese dove era nato, e dove c’era la cappella di famiglia. Lo lasciammo li da solo, perché, essendo sabato, la sepoltura sarebbe avvenuta il lunedì successivo.
Mario decollò con moglie e figli l’indomani per l’Indonesia, sentenziando che Filippo avrebbe voluto così. Patti partì per andare a firmare un mutuo per l’ennesima casa che doveva comprare. Teresa continuò i suoi giri di condoglianze, e ci comunicò che il lunedì non se la sentiva di partecipare alla sepoltura. A seppellire Filippo rimanemmo io e Camilla, che ci supportavamo a vicenda. Quel giorno percepii con certezza che ormai ero diventato grande: avevo quarantadue  anni ed era arrivato il momento.
In quei giorni confusi, ma intensi, mi tornarono in mente tanti ricordi di Filippo.
Mio padre da giovane era stato un buon tiratore e cacciatore, ed essendo di una famiglia ricca non aveva avuto particolari difficoltà a portare avanti quella passione. Una delle sue storie che preferivo era quella di quando, poco prima della guerra, con un gruppo di amici uniti dalla passione per la caccia, andava in nord Italia, durante le vacanze estive, in una specie di centro benessere del tempo. Lì mio padre curava la sua gastrite (sosteneva che il suo stomaco fosse ipoacido, secondo quanto gli avevano detto in ospedale, non so sulla base di quale inattendibile esame), e i ricorrenti reumatismi, che curò tutta la vita prendendo regolarmente la miracolosa Antireumina.
Ogni tanto, con gli amici fuggivano dal centro di cura e andavano alle gare di tiro, dove lui si presentava come un mediocre tiratore, mentre gli altri gli facevano da spalla. Solo nella parte finale della gara, che credo fosse a eliminazione diretta, dopo che i suoi amici avevano scommesso molti soldi su di lui, cominciava a tirare come sapeva fare e regolarmente vinceva. Così si portavano via anche un sacco di soldi. Fecero questo scherzetto 3 o 4 volte, cambiando regione ogni volta, perché i tiratori locali, la prima gliela facevano passare, ma la seconda sicuramente no.
Questa storia mi faceva ricordare quanto mi fossi sentito fiero di lui da bambino e, successivamente, mi aveva anche fatto capire che la vita non può essere solo sacrificio, e che, ogni tanto, bisogna trasgredire e divertirsi. Sembra banale ma, visti i penitenziali insegnamenti di Teresa, credo sia stato fondamentale.
Lui amava raccontare di quella volta che si fidanzò con una ragazza perché gli piaceva la sorella, che però era già fidanzata. Non riuscivo a vedere mio padre in questo ruolo da latin lover e non mi ricordo come finì questa storia. Sicuramente non arrivò da nessuna parte, ma la cosa che lo rendeva orgoglioso era di averlo fatto. Non lo sapeva, eppure mi stava insegnando una cosa importante. Tenere in vita la fantasia, anche senza realistiche possibilità, mi ha molto aiutato a superare i momenti difficili. Continuare a crederci è fondamentale, gli obiettivi possono essere cambiati.
Filippo era proprietario di alcuni agrumeti. Tutte le mansioni che i terreni richiedevano le svolgeva il suo fattore, che viveva in campagna badando anche ai suoi cani e portandoli a caccia per tenerli allenati.
Questo personaggio della mitologia della mia infanzia si chiamava Pollara. Non so granché della sua vita, ma quando noi bambini andavamo in campagna, lui era sempre lì con i suoi capelli bianchi, la faccia cotta dal sole, con la sua espressione di assoluta bontà e fedeltà. Ci offriva pane di casa e olive schiacciate con le sue mani forti deformate dall’artrite.
Quando Pollara era ormai molto anziano e malato, non potendo vivere più in campagna, venne a stare per qualche tempo nella nostra casa al mare, dove mio padre fece sistemare il garage per ospitarlo. Viveva li con il suo cane, una spinona mezza meticcia che si chiamava Rosa, con cui si capivano guardandosi negli occhi per qualche istante.
Appena arrivavamo, la domenica, io correvo subito da Pollara e gli chiedevo se potevo portare Rosa in giro con me. Pollara faceva un cenno con la testa a Rosa e lei, che sonnecchiava a terra accanto a lui, si alzava lentamente e mi seguiva seria. Rosa era quasi più grande di me, mi ricordo che io l’abbracciavo circondandole il collo con un solo braccio e non arrivavo neanche a chiudere il cerchio e toccarmi il fianco. Non so chi tra noi due guidasse la passeggiata, ma io mi sentivo grande e forte, mentre lei, con attenzione e pazienza cercava di capire e fare quello che le chiedevo.
Durante una di queste uscite, Rosa incontrò un gatto. Si scrutarono un istante, sia lei che il gatto avevano il pelo dritto sulla schiena. Poi, all’improvviso, partirono all’attacco e si azzuffarono. Il gatto ebbe la meglio e fece dei profondi graffi sul naso di Rosa. Piangendo, riportai Rosa sanguinante a Pollara e lui, con il suo tranquillizzante sorriso, la accarezzò e mi disse: “Osmio, veni c’à! Chi c’è da chianciri pì stà fissaria!” 1
Poi, tamponando il naso di Rosa con un fazzoletto le disse:  
“Rosa comu ti l’haiu a diri di lassari stari i iatti. Si nà smetti, quacchi ghionno ti piagghiano n’occhio, e poi viri comu cià finisci!” 2
Da quel giorno non portai più in giro Rosa: non potevo tollerare l’idea che, mentre era con me, un gatto l’attaccasse e le accecasse un occhio, senza che io riuscissi a difenderla, come mio Padre aveva fatto con Pollara, ormai anziano e malato.
Ma quello che più mi ricordava mio Padre, era una frase che aveva ripetuto centinaia di volte in famiglia, quando qualcosa non gli stava bene:  “Guardate che, se mi stufo, l’anno prossimo vendo tutto e me ne vado alle Ovaie (che sarebbero le Hawaii). E poi buonanotte ai suonatori!”.
Quando diceva questa frase non era veramente arrabbiato. Più che una minaccia era una battuta, che aveva solo il senso che nella sua mente si riservava l’illusione di poter andare, un giorno, in un luogo ideale.

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1  “Osmio, vieni qui! Cosa c’è da piangere per questa stupidaggine!”

2   “ Rosa come te lo devo dire di lasciare stare i gatti. Se non la smetti, qualche
       giorno ti graffiano in un occhio, e poi vedrai come la finisci.”

Forse, mentre la pronunciava, riusciva a estraniarsi dalle traversie della sua vita, e si vedeva alle Hawaii (ma credo che parlando delle Ovaie si riferisse alla Polinesia), circondato da fanciulle danzanti che gli mettevano al collo corone di fiori, mentre andava a pescare ogni mattina con la sua piroga.







sabato 26 aprile 2014

IL PARRUCCHIERO

Comunque, da single la difficoltà di mantenere una solida rete sociale restava uno dei problemi centrali e, per non sentirmi solo, dovevo fare almeno otto - dieci telefonate al giorno per tenere i contatti.
Claudio sosteneva che ci mancava un luogo di incontro, mentre le donne avevano il parrucchiere. Una sera a cena, dopo la prima bottiglia di vino, mi spiegò la sua teoria, basata sul fatto che il parrucchiere era fondamentale per le donne, perché non era soltanto il posto dove curavano alcuni aspetti della loro bellezza, ma anche quello dove solidarizzavano tra loro, dove si spalleggiavano, dove venivano vezzeggiate, coccolate e supportate, dove trovavano ascolto, si sfogavano, programmavano, chiedevano consigli e dove si alleavano tra loro.
“Osmio,” disse Claudio infervorato, “ma sei mai stato a farti tagliare i capelli da un parrucchiere?”.
“Si, una volta sono andato da quello di mia sorella Patti, ma non mi sono trovato molto a mio agio e non ci sono più tornato. Ma è stato diversi anni fa”.
“Beh, devi tornarci! Quasi tutti ormai tagliano i capelli anche agli uomini e c’è molto da imparare. Prova a pensarci un attimo.... non mi dire che non ti sei mai accorto del tono di leggera euforia con cui tua moglie, la tua compagna o quello che è, il giorno prima ti dice - Tesoro, domani alle tre devo assolutamente andare dal parrucchiere! - E tu magari pensi - E chi se ne frega! Oppure - Chissà quanto mi costerà?-.  E fai uno sbaglio! Perché stai sottovalutando l’importanza che ha per loro
quell’appuntamento”.
Claudio era inarrestabile, io pensai che forse aveva vissuto il parrucchiere della moglie come una minaccia e ora voleva sfogarsi.
“E poi, anche se quasi sempre il parrucchiere è un uomo un po’ effeminato, il luogo comune che sia gay è una solenne stronzata”.
“Su questo sono d’accordo. Anche secondo me il parrucchiere è un paravento e, probabilmente, cucca molto più di altri. Però credo che debba per forza essere un po’ femminile, perché in quel luogo la donna è la sovrana assoluta. Quello è il regno dell’estrogeno, dove il testosterone è ammesso, ma a concentrazioni molto basse e a un livello appena percepibile”.
“E’ infatti!” riprese Claudio, “quale è la prima cosa che cogli quando entri per tagliarti i capelli da un parrucchiere? Te lo dico io… è lo stupore delle donne che ci sono. Ti guardano un attimo interrogative come se pensassero: - Che cavolo ci fa questo intruso qui dentro?-” .
“Beh, è comprensibile!” dissi io,  “In fondo, stai sorprendendo la donna in uno dei suoi momenti peggiori, con i capelli dritti in testa avvolti nel domopak, senza trucco o con una maschera per il viso verde…o con delle strane creme dai colori angosciosi alla radice dei capelli, mentre il resto della chioma và disordinatamente da tutte le parti.”
“Per fortuna lo stupore non dura molto.” Proseguì Claudio con l’aria di chi aveva capito tutto:  “Immagino che dopo qualche attimo le donne si dicano: - Dimenticavo, ogni tanto tagliano i capelli anche a quelli là! -.
Poi continuano a scrutarti con ironico distacco, ma sospettose, e si dicono - Ma guarda un po’ questo strambo  personaggio, è proprio ridicolo a venire qui!…. Ma ci vuole forse provocare?…..O viene a curiosare?
Fatti suoi, freghiamocene e ignoriamolo”.
“Claudio,” intervenni io ridendo, “ma sei sicuro che pensino esattamente queste cose?”.
“Se non esattamente queste, sicuramente qualcosa del genere. E, infatti, a quel punto ti trovi in una fase un po’ più difficile, perché ti senti a disagio, non sai più dove stare e dove guardare e, se non viene qualcuno a salvarti indicandoti la poltrona dove ti laveranno i capelli, dovrai uscire per fumarti una sigaretta o fingendo di dover fare una telefonata urgente e riservata”. Fece una pausa per riprendere fiato: “ Ogni tanto però ci sono alcune donne che ti guardano in modo più curioso, ma non si capisce bene il motivo.”.
“Non ingannarti, secondo me non stanno guardando se sei carino, sono nel loro territorio e ti stanno solo studiando un po’, come quando si è incuriositi da un animale di una specie diversa e inferiore. Forse le uniche persone da cui puoi aspettarti un appoggio sono le ragazze che lavorano lì. I pochi maschi che ci sono non possono permettersi di aiutarti: se lo facessero verrebbero sbranati immediatamente da una muta di donne infuriate e tradite”.
“In effetti, le ragazze che lavorano dal parrucchiere sono sempre gentili e ti guardano in modo diverso, direi con curiosità”.
“Si, ma anche in questo caso, non dipende dal fatto che hanno un interesse per te. Secondo me è che, non raramente, odiano le donne che rendono più belle, con cui sono costrette a essere sempre cortesi e pazienti, riempiendole di complimenti. Diciamo che solidarizzano con te in quel momento perché stai sfidando quelle stronze…che loro sono costrette a coccolare”.
“Hai ragione!” m’interruppe Claudio, colpito: “Noi maschi che abbiamo il coraggio di andare lì tranquilli a farci tagliare i capelli, come se andassimo dal barbiere, siamo un po’ la loro rivalsa, perché diamo fastidio alle donne che ci vivono come un intruso. E siccome loro non possono permettersi di essere sgarbate, in quel momento tifano per noi”.
“Comunque”, dissi tagliando corto, “le donne hanno ragione di essere gelose del loro parrucchiere. Quello è un luogo che hanno creato per loro, e l’uomo disturba tutte le attività che vengono svolte lì.” E conclusi: “Ma se inventassimo anche noi  un posto simile come lo chiameresti?”
“Boh… forse il parrucchiero, visto che parrucchiere per signori è veramente ridicolo!”.
“ Si, perché invece il parrucchiero è molto originale!”.

Ridendo cambiammo discorso. Ma continuai a pensare che la parità dei sessi aveva avuto anche alcune ricadute negative, come quella che dai parrucchieri ormai tagliano i capelli anche agli uomini.

giovedì 30 gennaio 2014

Natale! Meglio evitarlo!

UN MAGNIFICO NATALE

“Luminoso e tempestoso”


Catania quest’anno a Natale era magica, per strada c’erano poche macchine e in dieci minuti arrivavi ovunque (mai visto niente di simile in passato), i negozi erano vuoti e alle casse non c’era fila, il tempo era bello senza un alito di vento e il 24 al tramonto la luce era simile a quella di Dubai, ma, a parte la luce, nient’altro faceva somigliare Catania a Dubai in quei giorni. Consuelo aveva chiamato il fratello Pippo alle 14 dicendo che insieme a Salvo (l’altro fratello) avevano deciso di comprare un televisore a Teresa (la madre). “E che cavolo!” aveva risposto Pippo “Ma proprio il 24 pomeriggio vi doveva venire in mente! Ho anche mal di gola e ora devo andare io a comprare sto coso, che peraltro non costerà meno di 200 euro”. “No” aveva risposto Consuelo “l’idea è venuta a Salvo diversi giorni fa….” e Pippo, ancora più irritato “E perché minchia non lo avete comprato prima, visto che vivete a Catania e io sono arrivato l’altro ieri?”.
Appena Pippo arrivò  a casa di Teresa,  prima di andare al Centro commerciale, Teresa gli chiese se poteva comprare un dolce per la sera, perché Claudia la moglie di Pippo, che  ogni anno organizzava  il cenone familiare, le aveva chiesto di portare un dolce e lei voleva portare un Babà!! “Ma dove piffero te lo trovo il Babà il 24 pomeriggio?” aveva risposto indispettito Pippo “Va bè, se non lo trovi compra quello che vuoi……io non ho avuto la testa in questi giorni.” aveva ribadito Teresa. Pippo aveva chiamato Claudia per verificare che effettivamente la madre dovesse portare un dolce, e si era beccato una scaramattata di urlacci perché lei aveva 27/28 persone cena e, a parte quello che portava Salvo,  non c’erano altri dolci. Pippo era frastornato, non capiva come era finito in questo dissidio dolciario visto che era la madre che doveva comprarli e lui non ne sapeva niente, ma per il principio della responsabilità oggettiva il Babà ricadeva inevitabilmente su di lui.
Pippo non protestò sapeva che era fiato sprecato, e mentre con Consuelo andavano al centro commerciale Porta di Catania,  la ascoltava paziente mentre gli raccontava allarmata che aveva un continuo bruciore all’esofago e che era imparanoiata perché pensava di avere un tumore. Poi commentò: “Probabilmente sarà il 324° tumore o la 425° malattia mortale che hai sospettato di avere nella vita, quindi perché preoccuparsi, te la sei cavata sempre!!” Comprare il televisore da Saturn fu molto semplice c’erano 400 televisori accessi e non più di 7 o 8 clienti, anche se Consuelo rischiò una crisi agorafobica in quel luogo troppo grande e affollato.
Poi fu la volta del dolce.
Consuelo decise che era meglio che Pippo non andasse in centro perché avrebbe incontrato troppo traffico e lo portò a S. Cristoforo nella “civita” alla famosa pasticceria Lanzafame. Per chi non lo conoscesse S.Cristoforo e il quartiere più popolare di Catania, un territorio che esce dalla giurisdizione normale con leggi proprie non scritte di cui sono sovrani i Boss locali, un po’ come la più nota Scampia a Napoli. Anche il codice stradale è sui generis e guidare in via Plebiscito (la via centrale del quartiere) il 24 pomeriggio alle 18 è un’esperienza mistica, nel senso che tutto sembra andare avanti per miracolo!! Si procedeva tra botti e mortaretti che ti facevano “saltare l’anima”,  decine di motorini ti sfrecciavano da tutte le parti facendo le manovre più imprevedibili, il casco era un’optional che non usava nessuno. Dopo 200 metri il misticismo si rivelò pienamente, e ti sembrava “un miracolo” che nessuno ti avesse preso o che tu non ne avessi investito neanche uno, compresi due bambini dodicenni o meno con micromotorini che di legale avevano ben poco, che erano apparsi all’improvviso contromano. Le macchine parcheggiavano ovunque, passare era uno slalom che assomigliava a una danza motorizzata in cui l’imperativo era non fermarsi mai e passarci…..comunque! E miracolosamente ci si passava quasi sempre!! Insomma, Pippo e Consuelo comprarono 1 kg. di cannolini metà di ricotta e metà al cioccolato, e non ci fu neanche un incidente!! Tenete conto che se ci fosse un incidente non sono così certo che avere l’assicurazione sia sufficiente a tutelarvi.
La cena fu come al solito maestosa, e alla faccia della spending review i bambini anche quell’anno ricevettero un sacco di regali ed erano molto felici. Teresa ricevette il suo televisore 100 Hertz Full HD, ma probabilmente non capì di cosa si trattava perché il giorno dopo a pranzo non sapeva (o non ricordava?) che le era stato regalato un televisore!! Alla fine molto del cibo servito rimase compresi i cannolini e una discreta quantità di profitterolles, anche perché di dolci ne arrivarono in tavola quattro e, avendo tutti stramangiato, il dolce nella panza non c’entrava più.
Il pranzo di Natale, invece, si svolse a casa di Teresa, non il giorno di Natale ma quello di S.Stefano perché Salvo con la sua famiglia per Natale era impegnato altrove. Nonostante il depauperamento neuronale Teresa riusciva ancora a cucinare discretamente , anche se durante il pranzo si fece prendere dall’ansia e venne esautorata dal compito di servire. L’unico neo fu il dolce composto da un piccolo panettone rigorosamente biologico, comprato ovviamente da Consuelo, che era una vera porcheria, aveva la consistenza del polistirolo e sapeva vagamente di truciolato.
Dopo pranzo il televisore 100 hertz full HD venne montato e programmato con la sapiente regia del figlio più grande di Salvo, e la parte familiare delle feste di Natale finì lì. Non finirono lì le seccature per cui dopo 4 giorni che Pippo era a Catania avrebbe voluto essere teletrasportato a casa sua immediatamente.