Era passato più di un anno da quando era finita la storia con Claudia, ero diventato Professore Associato, e volevo fermarmi lì: andare oltre mi avrebbe imposto compiti e impegni non scientifici che non mi interessavano.
Mario aveva avuto il terzo figlio, e aveva molti capelli bianchi e molti capelli in meno, ma era sempre iperattivo e ottimista. Comunque, per il momento aveva avuto ragione lui: era l’unico ad aver accresciuto l’albero genealogico della famiglia. Ognuno ha i propri modi di affrontare il problema della fine, lui lo faceva ricostruendo la genealogia familiare sino alla terza o quarta generazione precedente. E visto che non avevamo illustri predecessori, penso lo facesse soltanto per consolidare l’idea di far parte di un processo che poteva non avere una fine, insomma, era un tentativo di superare il suo essere mortale.
La vita scorreva abbastanza tranquilla, tuttavia il tempo passava troppo velocemente e, guardandomi indietro, anche se avevo fatto parecchie cose, mi sembrava che tutta la mia esistenza fosse durata pochi attimi. Per modificare questa fastidiosa impressione, spostavo la memoria su periodi ben definiti di cui cercavo di ricordarmi il maggior numero di particolari, nel tentativo di riuscire a dare al tempo un senso di durata più lungo......
Ero anche entrato a far parte di quel 1-2 % della popolazione IRPEF di più alto reddito, ma mi domandavo come mai non potessi comprarmi una casa, né una barca, né altri generi di conforto che molti ricchi possedevano. Doveva esserci qualcosa che non quadrava nella nostra ineguagliabile e furbesca nazione.
Dopo vari tentativi, avevo anche trovato una donna di servizio, o più correttamente una collaboratrice domestica, adatta alla mia condizione di single. Era una donna di 55 anni mai sposata, molto seria e precisa, che con il piglio di un ufficiale delle SS aveva preso il controllo della mia casa e la mandava avanti meglio di me, cercando di anticipare le mie necessità. Mi ricordava po’Adelina di Montalbano, anche se cucinava meno bene.
Un uovo strapazzato è un romanzo ironico e divertente in cui il protagonista narra le problematiche relazioni con le donne che incontra nella sua vita (la madre, le sorelle, le zie, le amiche, le fidanzate). Il traguardo da raggiungere è l’individuazione della sposa potenziale, progetto che si rivelerà assolutamente fallimentare.
lunedì 1 dicembre 2014
domenica 6 luglio 2014
La Nonna Santina.......il perno della famiglia!
Un mese dopo, la Nonna Santina ci lasciò.
Non credo che le nozze di Patti abbiano avuto un ruolo nella sua dipartita, ma
non posso escluderlo, viste le difficoltà con cui alcuni membri della mia
famiglia affrontavano il problema della perdita. Comunque, aveva seri problemi
cardiaci, ebbe una broncopolmonite e, almeno, non soffrì a lungo.
La loro fu una vita piena e la nonna diceva
che non si pentì mai di questa scelta, anche se Pippo era spesso al Nord per
lavoro. Erano più che benestanti, avevano un intero palazzotto di due piani che
al primo aveva più di venti stanze (alcune le scoprii soltanto quando ero già adolescente).
Dopo 4 femmine finalmente arrivò il tanto atteso maschio, e lì si fermarono.
Teresa era la primogenita. Posso immaginare quali problematiche potessero
esserci in famiglia per quell’esubero di donne; la nonna cercava di tenerle a
bada, ma era troppo buona e un po’ confusionaria e le mie zie stavano con due
piedi in una scarpa solo quando c’era il nonno Pippo di cui avevano timore, e
col quale avevano limitati rapporti affettivi. Mio zio Agatino, essendo il più
piccolo, riuscì a salvarsi in quel gineceo perché era coccolato da tutte le
sorelle. Insomma era una famiglia matriarcale dove, dato l’eccesso di presenze
femminili e la limitata possibilità di dare affetto a tutti in modo equilibrato,
la situazione lì dentro assomigliava a quella di un pollaio dove imperavano le
galline, beccandosi vicendevolmente ma mantenendo integra l’unità familiare.
I temi della famiglia unita, della beccata
mascherata da gesto affettuoso, del tentativo di controllare il pollaio con
ogni tipo di manovra, vennero affinati lì ben prima che io nascessi.
Il nonno lo conobbi appena e già in una
fase avanzata della malattia cerebrale che lo aveva colpito ancora piuttosto
giovane: non riconosceva nessuno e non riusciva più neanche a parlare. Quando
mi vedeva lanciava un lungo urlo, che a me faceva una paura tremenda, ma che
mia nonna Santina interpretava come un segnale di riconoscimento e di affetto.
Dopo la sua morte lo zio Agatino, anche se
molto giovane, prese il comando della famiglia, come voleva la tradizione. E
questa fu la sua seconda ancora di salvezza: riuscì a passare indenne dal ruolo
di fratello minore coccolato a quello di capofamiglia, senza che ci fosse il
tempo di preparare lotte intestine. Queste cominciarono pesantemente solo molti
anni dopo, quando tutti erano grandi, sistemati e scontenti per la iniqua
divisione del patrimonio.
Tutti volevamo bene alla nonna Santina, in
particolare noi nipoti, perché era una vera Nonna, e il suo funerale, dove ci
rincontrammo in molti, fu più gioioso e affettivamente vero di molti noiosi
matrimoni. Eravamo tutti commossi e ci sentivamo vicini, ma quella che
sorprendentemente piangeva come un vitello era Camilla, che alla nonna Santina
era molto legata e che, in silenzio, l’aveva accudita più di altri quando stava
male.
domenica 18 maggio 2014
DIVENTARE ADULTI (..anche se non vorresti!)
Filippo morì una mattina di ottobre all’età
di ottantadue anni. Già da un paio di anni non stava molto bene, e non
tollerava più di non riuscire a raccogliere da solo i fichi del suo albero. I
limiti che gli imponevano la sua età e la sua condizione, lo costringevano a un
modo di esistere per lui insopportabile, a quel punto il suo corpo aveva deciso
di lasciare perdere, non valeva più la pena continuare.
Noi eravamo tutti lì, oltre che tristi,
anche un po’ attoniti. Può sembrare bizzarro, ma non eravamo ancora pronti a
non avere più bisogno della sua presenza, anche se sapevamo da tempo, che non
poteva più aiutarci concretamente.
Mio padre era morto. E io avevo la
angosciosa sensazione di avere perso una protezione vitale, mi mancava un
paracadute, che con lui in vita mi sembrava di avere.
Anche se nessuno di noi figli fondava più
la vita sull’aiuto dei genitori, essendo sempre stati ritenuti da Teresa molto
bisognosi, in una parte accantonata di noi stessi rimaneva questo fragile frammento
di identità, che adesso inevitabilmente riemergeva e andava in pezzi. Certo
eravamo tutti adulti e indipendenti, ma emotivamente per me le cose stavano
così, e capivo che a questo punto era necessario crescere definitivamente. Nonostante
credessi di essere abbastanza preparato alla sua morte, con
mia sorpresa tutto in quei giorni mi sembrava confuso e volatile. Era vero
quello che avevo sentito dire, spesso a sproposito, che alcune cose puoi
conoscerle chiaramente solo quando accadono.
Tante persone che conoscevano personalmente
mio padre, e anche molti nostri amici che lo avevano conosciuto tramite noi e che
io non vedevo da tempo, vennero a trovarci prima del funerale. Sapevo che, per
non poche cose, mio padre era stato importante nella mia vita, ma ero sorpreso nel
vedere che, nonostante il suo carattere non facile, il suo modo passionale di
vivere lo aveva legato alle persone, e aveva fatto sì che tanti gli volessero
bene. Filippo pensava di non aver bisogno di una corazza, forse era stato
troppo protetto, e si buttava nella vita con entusiasmo, senza vedere gli
ostacoli. Ma continuando a sbatterci contro, cominciò a sentirsi sempre più
ferito, e a ritirarsi da quel mondo ingrato che lo ostacolava.
Teresa era comprensibilmente la più
confusa. In quei giorni era giunta alla conclusione che il suo compito
sacrificale verso mio padre fosse finito, quindi aveva delegato me e Mario a
occuparci di tutto. Cominciava a prepararsi a invertire la situazione: adesso
eravamo noi a doverci occupare di lei, ma sempre secondo le sue precise
direttive e aspettative. Anch’io ormai ero sistemato, avevo una compagna e
stavo per avere un figlio, quindi, secondo i suoi parametri, avevo una
famiglia. Il suo sacrificio era finito ora toccava a noi.
Arianna era al quarto mese di gravidanza e
aveva qualche piccolo problema, per cui avevamo deciso che era più sicuro che
rimanesse a riposo. Ma era anche giusto così. Non mi riferisco alle regole del
contratto di legame, ma al fatto che in quei giorni succedeva per me qualcosa
di molto personale e intimo, che era preferibile vivessi da solo.
Mario era ormai diventato ciò che mio padre
e Teresa speravano, e da qualche anno, era entrato in politica. A suo dire,
gestiva comuni, province e regioni.
Patti continuava ad avere bisogno di aiuto
ma, a forza di aiutarla, ormai aveva un patrimonio immobiliare non irrilevante,
e una attività collaterale che gestiva con discreta abilità.
Camilla aveva la sua vita interessante e
movimentata, girava per il mondo e da tempo, pur mantenendo la sua originalità,
si era stabilizzata.
Il funerale si svolse il giorno dopo.
Patti, che manteneva il suo hobby di
regista alternativa e andava sempre in giro con una telecamera in mano, riprese
tutta la cerimonia. Il prete, un personaggio vecchio stampo, la guardava
perplesso ma, essendo la situazione piuttosto anomala e non sapendo che quella
donna che immortalava tutto era la figlia, non disse nulla. Se lo avesse saputo
l’avrebbe presa per un orecchio, come gli scolari discoli, e l’avrebbe piazzata
d’imperio al primo banco, dove c’eravamo noi, il resto della famiglia.
Finito il funerale, con Mario accompagnammo
Filippo al cimitero del paese dove era nato, e dove c’era la cappella di
famiglia. Lo lasciammo li da solo, perché, essendo sabato, la sepoltura sarebbe
avvenuta il lunedì successivo.
Mario decollò con moglie e figli l’indomani
per l’Indonesia, sentenziando che Filippo avrebbe voluto così. Patti partì per
andare a firmare un mutuo per l’ennesima casa che doveva comprare. Teresa
continuò i suoi giri di condoglianze, e ci comunicò che il lunedì non se la
sentiva di partecipare alla sepoltura. A seppellire Filippo rimanemmo io e
Camilla, che ci supportavamo a vicenda. Quel giorno percepii con certezza che
ormai ero diventato grande: avevo quarantadue
anni ed era arrivato il momento.
In quei giorni confusi, ma intensi, mi
tornarono in mente tanti ricordi di Filippo.
Mio padre da giovane era stato un buon
tiratore e cacciatore, ed essendo di una famiglia ricca non aveva avuto particolari
difficoltà a portare avanti quella passione. Una delle sue storie che preferivo
era quella di quando, poco prima della guerra, con un gruppo di amici uniti
dalla passione per la caccia, andava in nord Italia, durante le vacanze estive,
in una specie di centro benessere del tempo. Lì mio padre curava la sua gastrite
(sosteneva che il suo stomaco fosse ipoacido, secondo quanto gli avevano detto in
ospedale, non so sulla base di quale inattendibile esame), e i ricorrenti
reumatismi, che curò tutta la vita prendendo regolarmente la miracolosa Antireumina.
Ogni tanto, con gli amici fuggivano dal
centro di cura e andavano alle gare di tiro, dove lui si presentava come un
mediocre tiratore, mentre gli altri gli facevano da spalla. Solo nella parte
finale della gara, che credo fosse a eliminazione diretta, dopo che i suoi
amici avevano scommesso molti soldi su di lui, cominciava a tirare come sapeva
fare e regolarmente vinceva. Così si portavano via anche un sacco di soldi. Fecero
questo scherzetto 3 o 4 volte, cambiando regione ogni volta, perché i tiratori
locali, la prima gliela facevano passare, ma la seconda sicuramente no.
Questa storia mi faceva ricordare quanto mi
fossi sentito fiero di lui da bambino e, successivamente, mi aveva anche fatto
capire che la vita non può essere solo sacrificio, e che, ogni tanto, bisogna
trasgredire e divertirsi. Sembra banale ma, visti i penitenziali insegnamenti
di Teresa, credo sia stato fondamentale.
Lui amava raccontare di quella volta che si
fidanzò con una ragazza perché gli piaceva la sorella, che però era già
fidanzata. Non riuscivo a vedere mio padre in questo ruolo da latin lover e non
mi ricordo come finì questa storia. Sicuramente non arrivò da nessuna parte, ma
la cosa che lo rendeva orgoglioso era di averlo fatto. Non lo sapeva, eppure mi
stava insegnando una cosa importante. Tenere in vita la fantasia, anche senza realistiche
possibilità, mi ha molto aiutato a superare i momenti difficili. Continuare a
crederci è fondamentale, gli obiettivi possono essere cambiati.
Filippo era proprietario di alcuni
agrumeti. Tutte le mansioni che i terreni richiedevano le svolgeva il suo
fattore, che viveva in campagna badando anche ai suoi cani e portandoli a
caccia per tenerli allenati.
Questo personaggio della mitologia della
mia infanzia si chiamava Pollara. Non so granché della sua vita, ma quando noi
bambini andavamo in campagna, lui era sempre lì con i suoi capelli bianchi, la
faccia cotta dal sole, con la sua espressione di assoluta bontà e fedeltà. Ci
offriva pane di casa e olive schiacciate con le sue mani forti deformate
dall’artrite.
Quando Pollara era ormai molto anziano e
malato, non potendo vivere più in campagna, venne a stare per qualche tempo
nella nostra casa al mare, dove mio padre fece sistemare il garage per
ospitarlo. Viveva li con il suo cane, una spinona mezza meticcia che si
chiamava Rosa, con cui si capivano guardandosi negli occhi per qualche istante.
Appena arrivavamo, la domenica, io correvo
subito da Pollara e gli chiedevo se potevo portare Rosa in giro con me. Pollara
faceva un cenno con la testa a Rosa e lei, che sonnecchiava a terra accanto a
lui, si alzava lentamente e mi seguiva seria. Rosa era quasi più grande di me, mi
ricordo che io l’abbracciavo circondandole il collo con un solo braccio e non
arrivavo neanche a chiudere il cerchio e toccarmi il fianco. Non so chi tra noi
due guidasse la passeggiata, ma io mi sentivo grande e forte, mentre lei, con
attenzione e pazienza cercava di capire e fare quello che le chiedevo.
Durante una di queste uscite, Rosa incontrò
un gatto. Si scrutarono un istante, sia lei che il gatto avevano il pelo dritto
sulla schiena. Poi, all’improvviso, partirono all’attacco e si azzuffarono. Il
gatto ebbe la meglio e fece dei profondi graffi sul naso di Rosa. Piangendo,
riportai Rosa sanguinante a Pollara e lui, con il suo tranquillizzante sorriso,
la accarezzò e mi disse: “Osmio, veni c’à! Chi c’è da chianciri pì stà fissaria!”
1
Poi, tamponando il naso di Rosa con un
fazzoletto le disse:
“Rosa comu ti l’haiu a diri di lassari
stari i iatti. Si nà smetti, quacchi ghionno ti piagghiano n’occhio, e poi viri
comu cià finisci!” 2
Da quel giorno non portai più in giro Rosa:
non potevo tollerare l’idea che, mentre era con me, un gatto l’attaccasse e le
accecasse un occhio, senza che io riuscissi a difenderla, come mio Padre aveva
fatto con Pollara, ormai anziano e malato.
Ma quello che più mi ricordava mio Padre,
era una frase che aveva ripetuto centinaia di volte in famiglia, quando
qualcosa non gli stava bene: “Guardate
che, se mi stufo, l’anno prossimo vendo tutto e me ne vado alle Ovaie (che
sarebbero le Hawaii). E poi buonanotte ai suonatori!”.
Quando diceva questa frase non era
veramente arrabbiato. Più che una minaccia era una battuta, che aveva solo il
senso che nella sua mente si riservava l’illusione di poter andare, un giorno,
in un luogo ideale.
____________________________
1 “Osmio,
vieni qui! Cosa c’è da piangere per questa stupidaggine!”
2 “ Rosa come te lo devo dire di lasciare stare
i gatti. Se non la smetti, qualche
giorno ti graffiano in un occhio, e poi
vedrai come la finisci.”
Forse, mentre la pronunciava, riusciva a
estraniarsi dalle traversie della sua vita, e si vedeva alle Hawaii (ma credo
che parlando delle Ovaie si riferisse alla Polinesia), circondato da fanciulle danzanti
che gli mettevano al collo corone di fiori, mentre andava a pescare ogni
mattina con la sua piroga.
sabato 26 aprile 2014
IL PARRUCCHIERO
Comunque, da single la difficoltà di mantenere
una solida rete sociale restava uno dei problemi centrali e, per non sentirmi
solo, dovevo fare almeno otto - dieci telefonate al giorno per tenere i
contatti.
Claudio sosteneva che ci mancava un luogo
di incontro, mentre le donne avevano il parrucchiere. Una sera a cena, dopo la
prima bottiglia di vino, mi spiegò la sua teoria, basata sul fatto che il
parrucchiere era fondamentale per le donne, perché non era soltanto il posto
dove curavano alcuni aspetti della loro bellezza, ma anche quello dove
solidarizzavano tra loro, dove si spalleggiavano, dove venivano vezzeggiate,
coccolate e supportate, dove trovavano ascolto, si sfogavano, programmavano,
chiedevano consigli e dove si alleavano tra loro.
“Osmio,” disse Claudio infervorato, “ma sei
mai stato a farti tagliare i capelli da un parrucchiere?”.
“Si, una volta sono andato da quello di mia
sorella Patti, ma non mi sono trovato molto a mio agio e non ci sono più
tornato. Ma è stato diversi anni fa”.
“Beh, devi tornarci! Quasi tutti ormai
tagliano i capelli anche agli uomini e c’è molto da imparare. Prova a pensarci
un attimo.... non mi dire che non ti sei mai accorto del tono di leggera
euforia con cui tua moglie, la tua compagna o quello che è, il giorno prima ti
dice - Tesoro,
domani alle tre devo assolutamente andare dal parrucchiere!
- E tu magari pensi - E chi se ne frega! Oppure - Chissà quanto mi costerà?-.
E fai uno sbaglio! Perché stai
sottovalutando l’importanza che ha per loro
quell’appuntamento”.
Claudio era inarrestabile, io pensai che forse
aveva vissuto il parrucchiere della moglie come una minaccia e ora voleva
sfogarsi.
“E poi, anche se quasi sempre il
parrucchiere è un uomo un po’ effeminato, il luogo comune che sia gay è una
solenne stronzata”.
“Su questo sono d’accordo. Anche secondo me
il parrucchiere è un paravento e, probabilmente, cucca molto più di altri. Però
credo che debba per forza essere un po’ femminile, perché in quel luogo la
donna è la sovrana assoluta. Quello è il regno dell’estrogeno, dove il testosterone
è ammesso, ma a concentrazioni molto basse e a un livello appena percepibile”.
“E’ infatti!” riprese Claudio, “quale è la
prima cosa che cogli quando entri per tagliarti i capelli da un parrucchiere?
Te lo dico io… è lo stupore delle donne che ci sono. Ti guardano un attimo
interrogative come se pensassero: - Che cavolo ci fa questo intruso qui dentro?-”
.
“Beh, è comprensibile!” dissi io, “In fondo, stai sorprendendo la donna in uno
dei suoi momenti peggiori, con i capelli dritti in testa avvolti nel domopak, senza
trucco o con una maschera per il viso verde…o con delle strane creme dai colori
angosciosi alla radice dei capelli, mentre il resto della chioma và
disordinatamente da tutte le parti.”
“Per fortuna lo stupore non dura molto.” Proseguì
Claudio con l’aria di chi aveva capito tutto: “Immagino che dopo qualche attimo le donne si
dicano: - Dimenticavo,
ogni tanto tagliano i capelli anche a quelli là! -.
Poi continuano a scrutarti con ironico
distacco, ma sospettose, e si dicono - Ma guarda un po’ questo strambo personaggio, è proprio ridicolo a venire
qui!…. Ma ci vuole forse provocare?…..O viene a curiosare?
Fatti suoi, freghiamocene e ignoriamolo”.
“Claudio,” intervenni io ridendo, “ma sei
sicuro che pensino esattamente queste cose?”.
“Se non esattamente queste, sicuramente qualcosa
del genere. E, infatti, a quel punto ti trovi in una fase un po’ più difficile,
perché ti senti a disagio, non sai più dove stare e dove guardare e, se non
viene qualcuno a salvarti indicandoti la poltrona dove ti laveranno i capelli,
dovrai uscire per fumarti una sigaretta o fingendo di dover fare una telefonata
urgente e riservata”. Fece una pausa per riprendere fiato: “ Ogni tanto però ci
sono alcune donne che ti guardano in modo più curioso, ma non si capisce bene
il motivo.”.
“Non ingannarti, secondo me non stanno
guardando se sei carino, sono nel loro territorio e ti stanno solo studiando un
po’, come quando si è incuriositi da un animale di una specie diversa e
inferiore. Forse le uniche persone da cui puoi aspettarti un appoggio sono le
ragazze che lavorano lì. I pochi maschi che ci sono non possono permettersi di
aiutarti: se lo facessero verrebbero sbranati immediatamente da una muta di
donne infuriate e tradite”.
“In effetti, le ragazze che lavorano dal
parrucchiere sono sempre gentili e ti guardano in modo diverso, direi con
curiosità”.
“Si, ma anche in questo caso, non dipende
dal fatto che hanno un interesse per te. Secondo me è che, non raramente, odiano
le donne che rendono più belle, con cui sono costrette a essere sempre cortesi
e pazienti, riempiendole di complimenti. Diciamo che solidarizzano con te in
quel momento perché stai sfidando quelle stronze…che loro sono costrette a
coccolare”.
“Hai ragione!” m’interruppe Claudio,
colpito: “Noi maschi che abbiamo il coraggio di andare lì tranquilli a farci
tagliare i capelli, come se andassimo dal barbiere, siamo un po’ la loro rivalsa,
perché diamo fastidio alle donne che ci vivono come un intruso. E siccome loro
non possono permettersi di essere sgarbate, in quel momento tifano per noi”.
“Comunque”, dissi tagliando corto, “le
donne hanno ragione di essere gelose del loro parrucchiere. Quello è un luogo
che hanno creato per loro, e l’uomo disturba tutte le attività che vengono
svolte lì.” E conclusi: “Ma se inventassimo anche noi un posto simile come lo chiameresti?”
“Boh… forse il parrucchiero, visto che
parrucchiere per signori è veramente ridicolo!”.
“ Si, perché invece il parrucchiero
è molto originale!”.
Ridendo cambiammo discorso. Ma continuai a
pensare che la parità dei sessi aveva avuto anche alcune ricadute negative,
come quella che dai parrucchieri ormai tagliano i capelli anche agli uomini.
giovedì 30 gennaio 2014
Natale! Meglio evitarlo!
UN
MAGNIFICO NATALE
“Luminoso
e tempestoso”
Catania quest’anno a Natale era magica, per strada
c’erano poche macchine e in dieci minuti arrivavi ovunque (mai visto niente di
simile in passato), i negozi erano vuoti e alle casse non c’era fila, il tempo
era bello senza un alito di vento e il 24 al tramonto la luce era simile a
quella di Dubai, ma, a parte la luce, nient’altro faceva somigliare Catania a
Dubai in quei giorni. Consuelo aveva chiamato il fratello Pippo alle 14 dicendo
che insieme a Salvo (l’altro fratello) avevano deciso di comprare un televisore
a Teresa (la madre). “E che cavolo!” aveva risposto Pippo “Ma proprio il 24
pomeriggio vi doveva venire in mente! Ho anche mal di gola e ora devo andare io
a comprare sto coso, che peraltro non costerà meno di 200 euro”. “No” aveva
risposto Consuelo “l’idea è venuta a Salvo diversi giorni fa….” e Pippo, ancora
più irritato “E perché minchia non lo avete comprato prima, visto che vivete a
Catania e io sono arrivato l’altro ieri?”.
Appena Pippo arrivò
a casa di Teresa, prima di andare
al Centro commerciale, Teresa gli chiese se poteva comprare un dolce per la
sera, perché Claudia la moglie di Pippo, che
ogni anno organizzava il cenone
familiare, le aveva chiesto di portare un dolce e lei voleva portare un Babà!!
“Ma dove piffero te lo trovo il Babà il 24 pomeriggio?” aveva risposto
indispettito Pippo “Va bè, se non lo trovi compra quello che vuoi……io non ho
avuto la testa in questi giorni.” aveva ribadito Teresa. Pippo aveva chiamato
Claudia per verificare che effettivamente la madre dovesse portare un dolce, e
si era beccato una scaramattata di urlacci perché lei aveva 27/28 persone cena
e, a parte quello che portava Salvo, non
c’erano altri dolci. Pippo era frastornato, non capiva come era finito in questo
dissidio dolciario visto che era la madre che doveva comprarli e lui non ne
sapeva niente, ma per il principio della responsabilità oggettiva il Babà
ricadeva inevitabilmente su di lui.
Pippo non protestò sapeva che era fiato sprecato, e
mentre con Consuelo andavano al centro commerciale Porta di Catania, la ascoltava paziente mentre gli raccontava
allarmata che aveva un continuo bruciore all’esofago e che era imparanoiata
perché pensava di avere un tumore. Poi commentò: “Probabilmente sarà il 324° tumore
o la 425° malattia mortale che hai sospettato di avere nella vita, quindi
perché preoccuparsi, te la sei cavata sempre!!” Comprare il televisore da
Saturn fu molto semplice c’erano 400 televisori accessi e non più di 7 o 8
clienti, anche se Consuelo rischiò una crisi agorafobica in quel luogo troppo
grande e affollato.
Poi fu la volta del dolce.
Consuelo decise che era meglio che Pippo non andasse
in centro perché avrebbe incontrato troppo traffico e lo portò a S. Cristoforo
nella “civita” alla famosa pasticceria Lanzafame. Per chi non lo conoscesse
S.Cristoforo e il quartiere più popolare di Catania, un territorio che esce
dalla giurisdizione normale con leggi proprie non scritte di cui sono sovrani i
Boss locali, un po’ come la più nota Scampia a Napoli. Anche il codice stradale
è sui generis e guidare in via Plebiscito (la via centrale del quartiere) il 24
pomeriggio alle 18 è un’esperienza mistica, nel senso che tutto sembra andare
avanti per miracolo!! Si procedeva tra botti e mortaretti che ti facevano
“saltare l’anima”, decine di motorini ti
sfrecciavano da tutte le parti facendo le manovre più imprevedibili, il casco
era un’optional che non usava nessuno. Dopo 200 metri il misticismo
si rivelò pienamente, e ti sembrava “un miracolo” che nessuno ti avesse preso o
che tu non ne avessi investito neanche uno, compresi due bambini dodicenni o
meno con micromotorini che di legale avevano ben poco, che erano apparsi
all’improvviso contromano. Le macchine parcheggiavano ovunque, passare era uno
slalom che assomigliava a una danza motorizzata in cui l’imperativo era non
fermarsi mai e passarci…..comunque! E miracolosamente ci si passava quasi
sempre!! Insomma, Pippo e Consuelo comprarono 1 kg . di cannolini metà di
ricotta e metà al cioccolato, e non ci fu neanche un incidente!! Tenete conto
che se ci fosse un incidente non sono così certo che avere l’assicurazione sia
sufficiente a tutelarvi.
La cena fu come al solito maestosa, e alla faccia
della spending review i bambini anche quell’anno ricevettero un sacco di regali
ed erano molto felici. Teresa ricevette il suo televisore 100 Hertz Full HD, ma
probabilmente non capì di cosa si trattava perché il giorno dopo a pranzo non
sapeva (o non ricordava?) che le era stato regalato un televisore!! Alla fine
molto del cibo servito rimase compresi i cannolini e una discreta quantità di
profitterolles, anche perché di dolci ne arrivarono in tavola quattro e, avendo
tutti stramangiato, il dolce nella panza non c’entrava più.
Il pranzo di Natale, invece, si svolse a casa di
Teresa, non il giorno di Natale ma quello di S.Stefano perché Salvo con la sua
famiglia per Natale era impegnato altrove. Nonostante il depauperamento
neuronale Teresa riusciva ancora a cucinare discretamente , anche se durante il
pranzo si fece prendere dall’ansia e venne esautorata dal compito di servire.
L’unico neo fu il dolce composto da un piccolo panettone rigorosamente
biologico, comprato ovviamente da Consuelo, che era una vera porcheria, aveva
la consistenza del polistirolo e sapeva vagamente di truciolato.
Dopo pranzo il televisore 100 hertz full HD venne
montato e programmato con la sapiente regia del figlio più grande di Salvo, e
la parte familiare delle feste di Natale finì lì. Non finirono lì le seccature
per cui dopo 4 giorni che Pippo era a Catania avrebbe voluto essere
teletrasportato a casa sua immediatamente.
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