domenica 18 maggio 2014

DIVENTARE ADULTI (..anche se non vorresti!)

Filippo morì una mattina di ottobre all’età di ottantadue anni. Già da un paio di anni non stava molto bene, e non tollerava più di non riuscire a raccogliere da solo i fichi del suo albero. I limiti che gli imponevano la sua età e la sua condizione, lo costringevano a un modo di esistere per lui insopportabile, a quel punto il suo corpo aveva deciso di lasciare perdere, non valeva più la pena continuare.
Noi eravamo tutti lì, oltre che tristi, anche un po’ attoniti. Può sembrare bizzarro, ma non eravamo ancora pronti a non avere più bisogno della sua presenza, anche se sapevamo da tempo, che non poteva più aiutarci concretamente.
Mio padre era morto. E io avevo la angosciosa sensazione di avere perso una protezione vitale, mi mancava un paracadute, che con lui in vita mi sembrava di avere.
Anche se nessuno di noi figli fondava più la vita sull’aiuto dei genitori, essendo sempre stati ritenuti da Teresa molto bisognosi, in una parte accantonata di noi stessi rimaneva questo fragile frammento di identità, che adesso inevitabilmente riemergeva e andava in pezzi. Certo eravamo tutti adulti e indipendenti, ma emotivamente per me le cose stavano così, e capivo che a questo punto era necessario crescere definitivamente. Nonostante credessi di essere abbastanza preparato alla sua morte, con mia sorpresa tutto in quei giorni mi sembrava confuso e volatile. Era vero quello che avevo sentito dire, spesso a sproposito, che alcune cose puoi conoscerle chiaramente solo quando accadono.
Tante persone che conoscevano personalmente mio padre, e anche molti nostri amici che lo avevano conosciuto tramite noi e che io non vedevo da tempo, vennero a trovarci prima del funerale. Sapevo che, per non poche cose, mio padre era stato importante nella mia vita, ma ero sorpreso nel vedere che, nonostante il suo carattere non facile, il suo modo passionale di vivere lo aveva legato alle persone, e aveva fatto sì che tanti gli volessero bene. Filippo pensava di non aver bisogno di una corazza, forse era stato troppo protetto, e si buttava nella vita con entusiasmo, senza vedere gli ostacoli. Ma continuando a sbatterci contro, cominciò a sentirsi sempre più ferito, e a ritirarsi da quel mondo ingrato che lo ostacolava.
Teresa era comprensibilmente la più confusa. In quei giorni era giunta alla conclusione che il suo compito sacrificale verso mio padre fosse finito, quindi aveva delegato me e Mario a occuparci di tutto. Cominciava a prepararsi a invertire la situazione: adesso eravamo noi a doverci occupare di lei, ma sempre secondo le sue precise direttive e aspettative. Anch’io ormai ero sistemato, avevo una compagna e stavo per avere un figlio, quindi, secondo i suoi parametri, avevo una famiglia. Il suo sacrificio era finito ora toccava a noi.
Arianna era al quarto mese di gravidanza e aveva qualche piccolo problema, per cui avevamo deciso che era più sicuro che rimanesse a riposo. Ma era anche giusto così. Non mi riferisco alle regole del contratto di legame, ma al fatto che in quei giorni succedeva per me qualcosa di molto personale e intimo, che era preferibile vivessi da solo.
Mario era ormai diventato ciò che mio padre e Teresa speravano, e da qualche anno, era entrato in politica. A suo dire, gestiva comuni, province e regioni.
Patti continuava ad avere bisogno di aiuto ma, a forza di aiutarla, ormai aveva un patrimonio immobiliare non irrilevante, e una attività collaterale che gestiva con discreta abilità.
Camilla aveva la sua vita interessante e movimentata, girava per il mondo e da tempo, pur mantenendo la sua originalità, si era stabilizzata.
Il funerale si svolse il giorno dopo.
Patti, che manteneva il suo hobby di regista alternativa e andava sempre in giro con una telecamera in mano, riprese tutta la cerimonia. Il prete, un personaggio vecchio stampo, la guardava perplesso ma, essendo la situazione piuttosto anomala e non sapendo che quella donna che immortalava tutto era la figlia, non disse nulla. Se lo avesse saputo l’avrebbe presa per un orecchio, come gli scolari discoli, e l’avrebbe piazzata d’imperio al primo banco, dove c’eravamo noi, il resto della famiglia.
Finito il funerale, con Mario accompagnammo Filippo al cimitero del paese dove era nato, e dove c’era la cappella di famiglia. Lo lasciammo li da solo, perché, essendo sabato, la sepoltura sarebbe avvenuta il lunedì successivo.
Mario decollò con moglie e figli l’indomani per l’Indonesia, sentenziando che Filippo avrebbe voluto così. Patti partì per andare a firmare un mutuo per l’ennesima casa che doveva comprare. Teresa continuò i suoi giri di condoglianze, e ci comunicò che il lunedì non se la sentiva di partecipare alla sepoltura. A seppellire Filippo rimanemmo io e Camilla, che ci supportavamo a vicenda. Quel giorno percepii con certezza che ormai ero diventato grande: avevo quarantadue  anni ed era arrivato il momento.
In quei giorni confusi, ma intensi, mi tornarono in mente tanti ricordi di Filippo.
Mio padre da giovane era stato un buon tiratore e cacciatore, ed essendo di una famiglia ricca non aveva avuto particolari difficoltà a portare avanti quella passione. Una delle sue storie che preferivo era quella di quando, poco prima della guerra, con un gruppo di amici uniti dalla passione per la caccia, andava in nord Italia, durante le vacanze estive, in una specie di centro benessere del tempo. Lì mio padre curava la sua gastrite (sosteneva che il suo stomaco fosse ipoacido, secondo quanto gli avevano detto in ospedale, non so sulla base di quale inattendibile esame), e i ricorrenti reumatismi, che curò tutta la vita prendendo regolarmente la miracolosa Antireumina.
Ogni tanto, con gli amici fuggivano dal centro di cura e andavano alle gare di tiro, dove lui si presentava come un mediocre tiratore, mentre gli altri gli facevano da spalla. Solo nella parte finale della gara, che credo fosse a eliminazione diretta, dopo che i suoi amici avevano scommesso molti soldi su di lui, cominciava a tirare come sapeva fare e regolarmente vinceva. Così si portavano via anche un sacco di soldi. Fecero questo scherzetto 3 o 4 volte, cambiando regione ogni volta, perché i tiratori locali, la prima gliela facevano passare, ma la seconda sicuramente no.
Questa storia mi faceva ricordare quanto mi fossi sentito fiero di lui da bambino e, successivamente, mi aveva anche fatto capire che la vita non può essere solo sacrificio, e che, ogni tanto, bisogna trasgredire e divertirsi. Sembra banale ma, visti i penitenziali insegnamenti di Teresa, credo sia stato fondamentale.
Lui amava raccontare di quella volta che si fidanzò con una ragazza perché gli piaceva la sorella, che però era già fidanzata. Non riuscivo a vedere mio padre in questo ruolo da latin lover e non mi ricordo come finì questa storia. Sicuramente non arrivò da nessuna parte, ma la cosa che lo rendeva orgoglioso era di averlo fatto. Non lo sapeva, eppure mi stava insegnando una cosa importante. Tenere in vita la fantasia, anche senza realistiche possibilità, mi ha molto aiutato a superare i momenti difficili. Continuare a crederci è fondamentale, gli obiettivi possono essere cambiati.
Filippo era proprietario di alcuni agrumeti. Tutte le mansioni che i terreni richiedevano le svolgeva il suo fattore, che viveva in campagna badando anche ai suoi cani e portandoli a caccia per tenerli allenati.
Questo personaggio della mitologia della mia infanzia si chiamava Pollara. Non so granché della sua vita, ma quando noi bambini andavamo in campagna, lui era sempre lì con i suoi capelli bianchi, la faccia cotta dal sole, con la sua espressione di assoluta bontà e fedeltà. Ci offriva pane di casa e olive schiacciate con le sue mani forti deformate dall’artrite.
Quando Pollara era ormai molto anziano e malato, non potendo vivere più in campagna, venne a stare per qualche tempo nella nostra casa al mare, dove mio padre fece sistemare il garage per ospitarlo. Viveva li con il suo cane, una spinona mezza meticcia che si chiamava Rosa, con cui si capivano guardandosi negli occhi per qualche istante.
Appena arrivavamo, la domenica, io correvo subito da Pollara e gli chiedevo se potevo portare Rosa in giro con me. Pollara faceva un cenno con la testa a Rosa e lei, che sonnecchiava a terra accanto a lui, si alzava lentamente e mi seguiva seria. Rosa era quasi più grande di me, mi ricordo che io l’abbracciavo circondandole il collo con un solo braccio e non arrivavo neanche a chiudere il cerchio e toccarmi il fianco. Non so chi tra noi due guidasse la passeggiata, ma io mi sentivo grande e forte, mentre lei, con attenzione e pazienza cercava di capire e fare quello che le chiedevo.
Durante una di queste uscite, Rosa incontrò un gatto. Si scrutarono un istante, sia lei che il gatto avevano il pelo dritto sulla schiena. Poi, all’improvviso, partirono all’attacco e si azzuffarono. Il gatto ebbe la meglio e fece dei profondi graffi sul naso di Rosa. Piangendo, riportai Rosa sanguinante a Pollara e lui, con il suo tranquillizzante sorriso, la accarezzò e mi disse: “Osmio, veni c’à! Chi c’è da chianciri pì stà fissaria!” 1
Poi, tamponando il naso di Rosa con un fazzoletto le disse:  
“Rosa comu ti l’haiu a diri di lassari stari i iatti. Si nà smetti, quacchi ghionno ti piagghiano n’occhio, e poi viri comu cià finisci!” 2
Da quel giorno non portai più in giro Rosa: non potevo tollerare l’idea che, mentre era con me, un gatto l’attaccasse e le accecasse un occhio, senza che io riuscissi a difenderla, come mio Padre aveva fatto con Pollara, ormai anziano e malato.
Ma quello che più mi ricordava mio Padre, era una frase che aveva ripetuto centinaia di volte in famiglia, quando qualcosa non gli stava bene:  “Guardate che, se mi stufo, l’anno prossimo vendo tutto e me ne vado alle Ovaie (che sarebbero le Hawaii). E poi buonanotte ai suonatori!”.
Quando diceva questa frase non era veramente arrabbiato. Più che una minaccia era una battuta, che aveva solo il senso che nella sua mente si riservava l’illusione di poter andare, un giorno, in un luogo ideale.

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1  “Osmio, vieni qui! Cosa c’è da piangere per questa stupidaggine!”

2   “ Rosa come te lo devo dire di lasciare stare i gatti. Se non la smetti, qualche
       giorno ti graffiano in un occhio, e poi vedrai come la finisci.”

Forse, mentre la pronunciava, riusciva a estraniarsi dalle traversie della sua vita, e si vedeva alle Hawaii (ma credo che parlando delle Ovaie si riferisse alla Polinesia), circondato da fanciulle danzanti che gli mettevano al collo corone di fiori, mentre andava a pescare ogni mattina con la sua piroga.







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