Il Natale rappresentava uno degli incontri
“portuali” di maggiore rilievo e nonostante i continui appelli di Teresa che
ribadiva il principio irrinunciabile “Dobbiamo volerci bene e aiutarci”, le
bordate partivano da tutte le parti.
Anche Santina, la nostra nonna materna, tra
un rumoroso risucchio della minestra e un altro, dovuti secondo lei alle
dentiere difettose, una volta era stata coinvolta nella disputa. Ma lei non era
abituata ai ritmi naturali della famiglia, e andò k.o. quasi subito. Mentre
Camilla litigava con mia madre, la nonna osò intervenire. Mia sorella, senza
alcun rispetto per la saggezza della terza età, si voltò verso di lei e le
disse: “Tu stai zitta, pensa piuttosto a non lasciare quelle schifose dentiere
dappertutto, perché un giorno o l’altro le butto nel water (in realtà disse
cesso) e tiro la catena”.
Questo provocò l’uscita di
scena della nonna, che si alzò da tavola e andò a chiudersi nella sua stanza a
piangere.
Io ero particolarmente depresso e rabbioso
in quel periodo, sentivo che la relazione con Beatrice stava sciogliendosi come
un iceberg al largo della Patagonia, e quindi utilizzavo il Natale per sfogare
con la famiglia il mio malumore.
Con un leggero mal di testa di fondo, tra
un dolore al fianco destro e un sospetto borbottio intestinale, lanciavo
continue provocazioni, sentendomi nello stesso tempo in colpa con i miei
genitori.
“Volete spiegarmi perché continuiamo a fare
queste pallosissime cene di Natale, dove nessuno ha voglia di partecipare?”.
“Osmio ha ragione” sostenne Camilla,
“l’anno prossimo aboliamola, così eviteremo di massacrarci a vicenda e sarà meglio per tutti”.
E Teresa, quasi in lacrime: “Patti, per
favore, vai a chiamare tua nonna. E voi due smettetela di dire queste
assurdità. Il Natale è una bellissima festa, è la nascita di Gesù e và
rispettata”.
“Si, col piffero…”, ribadii io, “finché
eravamo bambini poteva avere un senso, ma ormai è diventato solo un inutile
rituale”. E continuai su questo piano senza risparmiare niente e nessuno.
Poi arrivò il momento dei regali. Mia madre,
con l’equità che la caratterizzava, regalò un giaccone di montone a Patti, un
ombrello (oggetto che non usavo mai) a me, un portacravatte per l’armadio a
Mario e una cintura di cotone a Camilla, suscitando un vero vespaio.
Mario la prese con sarcasmo: “Teresa, che
meraviglioso regalo! Quanto lo hai pagato questo portacravatte? 500.000 mila
lire, come il montone di Patti? E si, sarà costato caro… è doppio, e può
contenere ben due file di cravatte!”.
“Guardate che il montone a Patti lo dovevo
comprare comunque, ed è solo un caso che glielo dia per Natale” si difese mia
madre.
“Si, come no”, intervenne Camilla lanciando
la sua cintura nel cestino della carta, “la prossima volta risparmiati i soldi
del mio regalo, è meglio!”.
Io nel frattempo avevo aperto l’ombrello e
cantavo e ballavo “Singing in the Rain” in salotto, suscitando le
preoccupazioni di Teresa e Filippo che erano piuttosto superstiziosi.
“Osmio, smettila e chiudi quell’ombrello!
Lo sai che porta male aprirlo in casa”.
Facendo finta di non aver sentito, evitai
di rispondere, tanto era tempo perso.