Ero in un momento di confusione, mi
sembrava di nuotare in un mare agitato e freddo, senza vedere la riva e senza
sapere dove mi stavo dirigendo.
L’immobilità mi sembrava l’unica soluzione
filosoficamente sensata: anche le divinità venivano descritte come immobili e
immutabili, e queste qualità le rendevano forti e probabilmente molto
tranquille.
Cercavo la soluzione negli insegnamenti
Zen, tentando di raggiungere il “Samadhi di Prajna”, cioè uno stato in cui: “invece di tentare di
purificare o vuotare le mente, la si deve lasciare libera giacché la mente non
è cosa da afferrare. Lasciar libera la mente equivale anche a dar libero corso
a pensieri e impressioni che vengono e vanno nella mente stessa senza
reprimerli, trattenerli o interferirvi “.
Questa pratica era definita del “non - pensiero”, e
mi aveva subito affascinato, anche se continuava a sfuggirmi il senso di questa
complicata contraddizione.
Infatti, mentre lasciavo fluire il mio
scomposto pensiero, inevitabilmente questo articolava dei programmi, e io
iniziavo subito a star male pensando a tutto quello che avrei dovuto fare;
stavo poi malissimo se cercavo di farlo, e peggio se non lo facevo. Nessun
insegnamento Zen o di altro tipo era utile, ma mi consolava il fatto che era
soltanto due mesi che mi esercitavo ad applicarli e forse, andando avanti, le
cose sarebbero cambiate. E in effetti cambiarono.
I libri Zen trovarono riposo sul più alto
degli scaffali, e il “non– pensiero” raggiunse la sua massima espressione
quando effettivamente non ci pensai più.
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